giovedì 16 ottobre 2014

Grazie Massimo!


Dimesso, mi apparto per ritagliarmi il solito posto su quella tiepida stesa di gramegna. È passato un anno e intorno pare quasi tutto immutato...solite facce, solite dilanganti speranze del "ve ne famo 'n capagno", la solita scaramanzia; è quest'ultima a impormi, come dal giorno dell'incisione del Piazzai fino ad oggi, di canticchiare tra me e me; l'inno A.Ci.Do arriva con i ragazzi in piedi, una linea unica schierata a centrocampo; tirano fuori il petto, alzano lo sguardo al cielo terso di questo balordo ottobre alleronese.
Siamo qui per te. Ci siamo ritrovati a chiederci spesso in questi ultimi giorni, se sarebbe giusto continuare e abbiamo deciso di farlo perché tu avresti voluto vederci così: accalcati sui pendii di questa greppa, colorati e pronti a sgusciare le mani, rumorosi e sguaiati, anche mezzi alticci, se qualche buon'anima ha provveduto a cava' il bombo.
In questa strana atmosfera di incompiutezza, l'11 settembre 2014 scende in campo, per la prima volta senza di te, la nostra amata ACD.
Osservo commosso e ancora incredulo lo striscione appeso, ai lati della panchina, in cui giganteggia un doveroso e quanto mai riduttivo "Grazie". I ragazzi lo fissano; finché ci sara' qualcuno a correre dietro ad un pallone, su quella terra battuta, a stropicciarsi il polverone dagli occhi prima del fischio finale, qui dove Ripuje trascina via a fatica le nostre lacrime, qui, ci sarai anche tu. Lo circondano, si abbracciano verso la panchina. Sulla greppa, impediti a proferir parola, braccia pietrificate e piedi accavallati come tanti Cristi Crocifissi, muti, feriti e graffiati nell'anima.
Chi era dalle parti dello spogliatoio non dimenticherà questi anni densi di ricordi, vita fianco a fianco, condivisa con l'entusiasmo e la tenacia di chi ha creduto fin dall'inizio in questa piccola scommessa, di chi ha messo la propria vita al servizio della gente, di chi ha lottato strenuamente affinché questo anfratto dimenticato da Dio, anche nei suoi interminabili inverni, mantenesse una luce di speranza.
Ci hai insegnato che si può riempire la vita di tante cose, che esiste un tempo da dedicare a se stessi e molto altro da dedicare agli altri, che qui, tra questi angoli, nelle nostre piazzette piuttosto che seduti al tavolino del bar, gli altri siamo davvero noi.
Ci hai svelato gli angoli più attraenti dei nostri vicoli, le viste sconfinate e i piu' nostalgici tramonti dietro ai campi appena trebbiati, i sentieri tra i boschi, i colori e gli odori unici di un arcobaleno scrutato dall'alto della Porta del Sole, li hai resi crocevia per tutti quegli aficionados che tornano a riempire di dialetti e cadenze lontane, i nostri pomeriggi d'estate, lasciandoci la preziosita' del tuo sguardo, mai banale e sempre profondamente acuto; ci hai permesso, anche quest'anno, ancora oggi, di ritrovarci, tutti insieme, dentro e fuori dal campo di gioco.
Per questo e per tantissimo altro, da quelle finestre, dalla greppa del Tardiolo, dai vicoli del borgo, proveremo a far uscire canti, cori e musica, rumore di passi che calpestano un palco, l'odore di un soffritto nostrano e sguardi entusiasti di questi poggi mozzafiato.
Chi ha pensato a quello striscione, acceso di un rosso e blu quanto mai saturo di colore, che guarda ai poggi della greppa, quasi come un vero e proprio monito, ci ha impresso una densità di pensieri e ricordi e, più di tutto, un messaggio chiaro; perché in fondo, più di tutti loro, piu' di tutti noi, hai saputo essere portiere felino, coriaceo e attento difensore, sofisticato centrocampista euclideo, propositivo attaccante in avanti. Noi (altri), da ora in poi, sapremo, tutt'al più, soltanto avanzare dei timidi passi.
Per questo e per tutti i sabati pomeriggio in cui vivrai con noi gli schiaffi di una sconfitta o gli abbracci universali di una vittoria come quella di oggi, Grazie.
Si è fatto tardi, sono rimasto con il capo tra le mani a ricordarti mentre cojonave 'l Bello in versione Moggi, con quello strano lancio d'aria al ciuffo ribelle, o scommettevi a rialzo sulla prossima squalifica dopo i famigerati lanci della bandierina, a contargli l'ennesima sigaretta.
Me ne vado. Da qualche parte ci sarà un campionato da organizzare, multe da pagare, campi da spianare. Lì, ne sono sicuro, ci sarai tu.
Il sole ottobrino mi sta salutando, con la lentezza e la clemenza di chi e' rimasto per suggellare questa giornata densa di te. Mi allontano stordito dai pensieri, ripetendo, come fossi un disco rotto, quella frase del nostro inno che fa così: "Sogno di vederti sul campo e ti vedo davvero".
Grazie di tutto amico mio!



lunedì 10 marzo 2014

Se vuoi vincere, devi saper perdere



Quando tanti, tanti (ma veramente tanti) anni fa iniziai il liceo ero un ragazzo alto poco più di un metro e sessantatrè, abbastanza goffo con i miei pantaloni corti sopra il ginocchio e i miei occhiali spessi come il fondo di una bottiglia. 
L’ aspetto bislacco comunque non mi ha mai impedito vivere con passione qualsiasi cosa facessi nella mia vita; come ogni ragazzo a prescindere dalla generazione,  la musica, i libri, il ballo, le feste (regà ve garantisco che allora, a differenza de adesso, sgarrà il coprifuoco delle 10 e mezza era 'n casino) e naturalmente le donne, erano le mie più grandi passioni(“'l bongiorno se vede dal mattino..”). 
Tuttavia il mio vero vizio è stato e sempre rimarrà (oltre al gentil sesso) il calcio: lo vivevo da idealista, con lealtà cavallesca, una ricetta che ora che so vecchio direi che faceva di me un buon compagno di gioco, uno di quelli “che la passa”.
Allora non avevamo la fortuna di avere un campo o una società pronta ad accoglierci come un qualsiasi bambino che oggi decide di avvicinarsi a questo sport: giocavamo per strada, meno che mai avevamo una porta (due sassi, due vasi di fiori, un sasso e un vaso, insomma quello che trovavamo senza troppe formalità), nessuno aveva mai indossato una “maglia”, anzi, se non stavamo attenti a non rovinare “li panni” che c’avevamo addosso ogni nuova toppa comparsa il giorno dopo avrebbe indicato a chiare lettere il numero di schiaffi presi la sera prima, una sorta di marchio del disonore insomma, che sarebbe ricaduto a suon de “ma te pare..?” sulle generazioni successive fino alla fine de secoli.
Nel gioco cercavo di compensare i miei limiti fisici come potevo, non riuscendo a vincere mai nei contrasti (forse me sarà venuto da lì il complesso di Napoleone?), cercavo di correre a più non posso, che Speedy Gonzales a confronto sembrava il regionale della tratta Orvieto-Siena; devo dire che nei momenti di difficoltà ricorrevo  spesso ad un aiutino esterno ( per chi già pensa male, “ma ch’ete capito? Mica ero n’drocato”!!): diciamo che ricorrevo ad uno stimolo di tipo iconografico, ovvero l’immagine della faccia che fece la mi mamma quando s’accorse che la damigianetta del vino rosso era stata misteriosamente dimezzata, mediante un sapiente buco fatto ad opera d’arte dal sottoscritto con la complicità del mi cugino più piccolo (in due avremo fatto si e no vent’anni), che ancora oggi regà, quanno ce ripenso me viene da corre! Non me la cavavo malissimo nemmeno con i piedi, certo non ero Maradona, ma ciò mi bastò a farmi guadagnare la stima e il rispetto dei miei amici, con cui trascorrevo quei pomeriggi così spensierati e che rimpiango ogni volta che sento la voce argentina della mi moje tuonare a mo’ di condanna a morte “do seeeee?”, inteso come seconda persona del verbo essere.
Ma le cose belle si sa, hanno sempre una fine più vicina di quanto vorremmo: un giorno di fine giugno arrivò ad Allerona un “forestiero”, nipote di certi parenti di Roma della nonna della fija della sorella del farmacista tanto per chiarezza, venuto a passare le vacanze nel paesello e “pe' respirà n’ po’ d’aria bona che la pe' quelle città 'l verde quanno lo vedono mae”?! Mah. 
Il ragazzo in questione 15 anni, ma già alto uno e ottantacinque  e con due spalle che lo rendevano più simile al minotauro che ad un individuo umano, chissà perché non mi prese in simpatia. 
Narcisisticamente mi sono sempre detto che forse era colpa proprio di quell’altezza spropositata in cui proprio non si ritrovava e che gli faceva quasi invidiare il mio piccolo mondo; più probabilmente era dovuta al fatto che il giovanotto in questione non spiccava in quanto a cultura e che la mi mamma aveva avuto la bella pensata di offrirmi come vittima sacrificale sull’altare delle ripetizioni al suddetto minotauro.
Orbene, il ragazzo in questione aveva però un solo ma indiscusso talento, era un portento del giuoco del calcio; ed il giorno che decise che sarebbe sceso in strada a giocare con noi e che io, 'l Maradona de noaltre, non avrei più toccato praticamente nemmeno mezzo pallone, divenne uno dei giorni più tristi della mia adolescenza. 
La botta fu talmente grossa che, ebbro d’orgoglio, decisi che non avrei mai più giocato in vita mia. Era o perlomeno sembrava la storia di Davide contro Golia, ma con un epilogo inverso.
A questo punto però vi chiederete il perché di tutto questo panegirico: non ho raccontato la mia storia per amor di vanagloria, ne del resto intendo incitare qualcuno a contattare la De Filippi per farmi incontrare il mio vecchio amico a “C’è posta per te”. 
Il senso di questa storia sta tutto nel suo finale; nella mia (pur breve) carriera calcistica la più grande sconfitta non è stata nel risultato scadente, ma nel perdere il senso per cui giocavo, perdere la passione, perdermi dentro una semplice delusione.
Cari  giocatori, carissimi tifosi, in questa semifinale abbiamo vissuto una storia per certi versi simile alla mia, anche noi ci siamo imbattuti in un forestiero più forte (che so gente “tanto, tanto vone” per carità, ma 'l fatto che Foligno è Lu centro de lu munno c’entrerà  pur qualcosa, no?!), nel nostro Golia personale, in una squadra che oltre ad aver fatto una splendida performance di gioco il cui merito va soprattutto ad alcuni elementi con cui si ha difficilmente possibilità di misurarsi in un girone di terza categoria, ci ha dato anche una grande lezione di  sportività e correttezza. 
Dal canto nostro abbiamo lottato con la dignità ed il cuore che ci contraddistingue, con tante assenze ed infortuni che purtroppo hanno fatto la differenza.  
Una delle regole più importanti, però, per imparare a vincere in questo sport è proprio riconoscere quando un avversario è superiore. 
Bisogna saper perdere” cantavano The Rokes con Dalla, anche se fa male, anche se sognavamo già il pullman, la coregorafia da serie C, la coppa, il Cholo che alza quelle col vino, anche se sognavamo solo di esserci ancora, almeno un’altra volta.
Io credo però (e i più superstiziosi si lancino nei rituali più vari) che ci saremo ancora su quel pullman un giorno, perché anche la nostra società ha una forza speciale, una marcia in più: la capacità di saper ricominciare nei momenti più bui, di vivere la parte autentica e vera dello sport al di là di tanta burocrazia, di saper festeggiare con l’avversario (a questo proposito ringrazio la capitana nonché presidentessa Vanessa che sul social network ce ne ha dato prova)…
A volte quando ci si sente smarriti durante un lungo cammino l’unica cosa da fare è fermarsi un attimo, guardarsi indietro e  ricominciare dal principio, dall’essenza delle cose: novanta minuti, un pallone, undici cuori che battono all’unisono e la nostra immancabile, celebrata, sudata ed amatissima greppa.



lunedì 10 febbraio 2014

Moje e buoi (e muli)




Tiberio Tiberi, noto ai più come Brodo, era un uomo robusto, ben piantato, uno di quegli alleronesi veraci a cui la “macchia”, intesa come “bosco”, inteneriva il volto, impreziosiva anche i solchi delle mani. Me lo ricordo con quella camicia da battaglia e la giubba di velluto appoggiata sulla spalla quando, a Mattio, col suo stile indimenticabile, radunava i muli; in sella, pe’ la scesa, a quella già vecchia bicicletta Bianchi e poi al ritorno, quando cominciava la salita, a piedi, spingendola a mano. Seduto lì, ai piedi dell’Orologio, come chi aspetta di respirare quell’aria bona che ti rianima, dopo una lunga giornata di lavoro, a dilungarsi in chiacchiere e bloccare i passanti. Non gli sfuggiva niente e se per un paio di giorni non ti aveva visto bazzicare da quelle parti, al terzo ti punzicava: “Chi nun more s’arivede”, diceva Brodo. E oggi, come allora, sarebbe toccato a me.
Ebbene, sì, cari tifosi acidi, eccomi di nuovo su queste pagine a sventolare, dietro gli strepiti di questa tramontana, così troppo tiepida da mandare a male tutte le salate, la mai dimenticata bandiera rossoblú.
Ho saputo, dal mio Fido &Co, che tra gli irti colli alleronesi, oltre alla nebbia e al ribbollir dei tini, altre storie hanno tenuto banco in questa mia stagione di latitanza. Come dire, l’hanno dette pe’ pelle de’ cane, raccontate de cotte e de crude. Eccovi alcune tra le versioni più pregevoli:
a) “l’ha avuta”. E qui, consentitemi, giù a ravanare i “poliminibus”, come avrebbe detto, pace all’anima sua, la mia baffuta insegnante di latino;
b) “Ha chiuso baracca e burattine”. Aminadab era il cavaliere mascherato che parlava per Mister Moureno e che, dopo l’esonero, è emigrato verso altri lidi, limitandosi a scrivere sui vari modi di soffriggere la trippa;
c) “la moje l’ha vergato”. Il troppo tifo acido e la scarsa attenzione erotico-affettiva, rivolta alla signora di cui sopra, l’hanno portato al patatrack;
d) “troppe bicchierette”. Il buongustaio alleronese è finito all’ospedale perché c’ha ‘l fegato grosso come ‘na vacca chianina e le transaminasi che, per scriverle su un referto medico, ce vorrebbero i logaritmi;
Insomma, chi m’aveva già assotterrato co’ tutto lo scrittoio, chi aveva “sciolto le cane” (per la serie, “si so bone pel cignale…!”) e chi aveva più volte pensato alla lettera da scrive' a “Chi l’ha visto”, mai arrivata perché l’intestazione della missiva, alla voce: “destinatario”, pare riportasse: “Che l’hae veduto?”. Annullata la spedizione postale, nessuno, pare, sia stato in grado di rintracciarmi e chiudere il cerchio apertosi intorno alle nebulose vicende che mi avevano coinvolto.
Orbene, cari amici e tifosi a.ci.di, dopo questo lungo preambolo posso dire una cosa con certezza: di tutte le voci, dicerie, chiacchiere, maldicenze, indiscrezioni, storie e leggende sul mio conto, “nun ce n’è una bona manco pe’ fa la coppa”!
Allora che è successo veramente, vi chiederete. Bene. Successe che il vecchio cronista si innamorò perdutamente di una giovane ragazza, badante interna in casa del mio vecchio amico castellese, e che qui, per comodità, chiameremo Lolita come l’eroina del romanzo di Nabokov, e decise di vivere sino in fondo quest’ultima avventura erotica.
Alta, bionda, con le curve al posto giusto, na’ ventina de’ centimetri di più ed altrettanti anni in meno, che, detto tra noi, quando si ha a che fare con certe faccende, non guastano affatto: insomma, cari tifosi rossoblú, vi tradii, rinunciai al bacio setoso del baffo del Bello, per quella gentile parte dell’anatomia femminile che, a Napoli, dicesi pucchiacca! Volete mette!
Oltretutto, la Lolita in questione proveniva, udite, udite, da Begec, paese della Serbia, sconosciuto ai più, ma che diede i natali nientepopodimenoche all’illustrissimo Vujadin Boskov. Mi innamorai di lei perché sapeva tutto della Stella Rossa e praticamente parlava come l’indimenticabile allenatore della Sampdoria. Nel nostro primo incontro, quando passammo alle vie di fatto, ella, con quell’incantevole accento, mi chiese: “Hai messo barriera?”. Me partì ‘l capo come “cervo che esce da brughiera”, dicesse Boskov.
Trafficai parecchio, senza aver capito molto bene il senso della domanda, poi, con l’impeto del grande Cortellini, ultimo difensore delle domeniche al Tardiolo, le sussurrai: “Sì, l’ho messa sul primo palo”. Ma ella si inalberò e, convinta a seguire i dettami del suo manuale, mi gridò: “Barriera si mette su palo e basta.”
Quella sera, sconvolto dal dover rivedere tutte le poche certezze calcistiche che avevo appreso nelle mie cinquanta-e-‘n-po’ primavere, divorato da tutta ‘sta confusione calcistico-erotica, feci cilecca. Mi girai e rigirai nel letto, sognando i fasti del primo amore che non si scorda mai; era ‘l Bello che me sventolava ‘l manico della bandierina tra capo e collo. Preso da un sussulto, in dormiveglia, le gridai: “Farabutto! Lei è ‘n farabutto!”.   
Finì così. Il connubio calcio-eros durò quanto un fuoco di paglia. E non fu solo per colpa delle mie discutibili doti nell’ars amatoria.
In primis tutti quelli che mi conoscono, anche solo virtualmente, sanno bene che, oltre ad essere una gran forchetta, so’ anche de’ bocca bona. Orbene, giusto come infarinatura gastro-culinaria, sappiate che un pranzo tradizionale serbo si apre sempre e solo con la “Corba”; fu amaro lo stupore nello scoprire che con “Mangia Corba!” la bionda della Stella Rossa non intendeva il presente indicativo del verbo “Corbare”, vale a dire: “Magna e fatte ‘na pennichella” bensì: “Magnate sta minestrina”. E questo fu, su per giù, il menù settimanale al quale sottostai per quel periodo: lunedì: “corba al pommodoro”, martedì: “ribollita de’ Corba d’agnello”, mercoledì: “brodo de’ Corba de’ patate”, giovedì: “corba de’ spinace”, venerdì: “corba de’ funghi prataioli”; insomma, la mi pora nonna eva ragione, ogni bel canto viene a noia e, Corba-che-te-ri-Corba, Corba-te-che-Corbo-io, dopo poco mi sentii come la scena del film in cui Forrest Gump parla, per giorni e giorni, dei mille ed uno modi in cui rendere ricettabili i gamberetti.
Come avrete notato, tra l’altro, ho sorvolato sul pranzo domenicale perché quando, al  ritmo di “Tagliatelle Dreamin’”, parafrasando un celebre brano degli anni sessanta, mi furono servite le scodelle con la govedja čorba e la teleća čorba (rispettivamente a base di interiora di manzo e di vitello) l’amor profano, ebbe la meglio. Il primo amor profano, bene intesi. Ebbene, in quel giorno compresi che il pensiero dell’antipasto misto domenicale, co’ la mazzafegata e il capocollo de’ Ferretti, non mi avrebbe abbandonato fino al momento del trapasso.
Quelle domeniche trascorse a base di acque cotte sciacqua-budelle, tra un’elegante bionda dell’est dalle camicie ricamate e un semi-calvo alleronese dall’unghio incarnito, espatriato insieme alle sue inseparabili ciavatte de’ la sanitaria, abbinate ai calzettoni di spugna, quelle giornate bizzarre come il congiuntivo di Boskov, finirono così. Finì che appesi le scarpe al chiodo e ritornai fra le braccia grosse, per carità, ma confortanti della mi moje, suocera annessa, tra i baffi brizzolati del Bello e i valori normali della prostata.
Le lasciai un messaggio, scritto con una biro, dietro al ritaglio di giornale che celebrava lo scudetto di Vujadin, a Genova, nel 1991 che faceva così: “Partita dura novanta minuti e finisce quando arbitro fischia”. Ce vedemo più vecchie.
Il viaggio di ritorno fu, come spesso accade, pieno di ansie e di tormenti ma anche di curiosità su quello che mi ero perso. Ricordai in particolare, di un pomeriggio in cui, mentre facevo la posta alla bella slava, incrociai, tra i vicoli, l’aiuto cronista A.Ci.Do assai scoraggiato. Gli chiesi lumi sulla squadra, sui ragazzi, sul nuovo allenatore e il Nostro mi rispose, insaccando le spalle, alla Boskov: “pallone entra quando Dio vuole!”
Ragazzi, popolo rossoblù tutto, eccomi qua! Abbiamo da scrivere un’altra importante pagina di calcio e di vita insieme ed è proprio nei momenti più duri che, se guardiamo con gli occhi giusti, il bandolo della matassa appare più vicino e le imprese, da impossibili, appaiono già a portata di mano. Magari, basta scendere e portare la bicicletta sottobraccio. A quel punto, quella partita, “la possiamo vincere, perdere o pareggiare” ma per lo meno, abbiamo deciso di giocarla a modo nostro.
Sapete cosa gli risposi io a quel cronista? Da vero filosofo alleronese, gli dissi: “A te te sembra ‘na salita ma, se la guardi bene, penne come ’na scesa”. 
Tiberio, ne sono convinto, sarebbe fiero di me.