lunedì 10 febbraio 2014

Moje e buoi (e muli)




Tiberio Tiberi, noto ai più come Brodo, era un uomo robusto, ben piantato, uno di quegli alleronesi veraci a cui la “macchia”, intesa come “bosco”, inteneriva il volto, impreziosiva anche i solchi delle mani. Me lo ricordo con quella camicia da battaglia e la giubba di velluto appoggiata sulla spalla quando, a Mattio, col suo stile indimenticabile, radunava i muli; in sella, pe’ la scesa, a quella già vecchia bicicletta Bianchi e poi al ritorno, quando cominciava la salita, a piedi, spingendola a mano. Seduto lì, ai piedi dell’Orologio, come chi aspetta di respirare quell’aria bona che ti rianima, dopo una lunga giornata di lavoro, a dilungarsi in chiacchiere e bloccare i passanti. Non gli sfuggiva niente e se per un paio di giorni non ti aveva visto bazzicare da quelle parti, al terzo ti punzicava: “Chi nun more s’arivede”, diceva Brodo. E oggi, come allora, sarebbe toccato a me.
Ebbene, sì, cari tifosi acidi, eccomi di nuovo su queste pagine a sventolare, dietro gli strepiti di questa tramontana, così troppo tiepida da mandare a male tutte le salate, la mai dimenticata bandiera rossoblú.
Ho saputo, dal mio Fido &Co, che tra gli irti colli alleronesi, oltre alla nebbia e al ribbollir dei tini, altre storie hanno tenuto banco in questa mia stagione di latitanza. Come dire, l’hanno dette pe’ pelle de’ cane, raccontate de cotte e de crude. Eccovi alcune tra le versioni più pregevoli:
a) “l’ha avuta”. E qui, consentitemi, giù a ravanare i “poliminibus”, come avrebbe detto, pace all’anima sua, la mia baffuta insegnante di latino;
b) “Ha chiuso baracca e burattine”. Aminadab era il cavaliere mascherato che parlava per Mister Moureno e che, dopo l’esonero, è emigrato verso altri lidi, limitandosi a scrivere sui vari modi di soffriggere la trippa;
c) “la moje l’ha vergato”. Il troppo tifo acido e la scarsa attenzione erotico-affettiva, rivolta alla signora di cui sopra, l’hanno portato al patatrack;
d) “troppe bicchierette”. Il buongustaio alleronese è finito all’ospedale perché c’ha ‘l fegato grosso come ‘na vacca chianina e le transaminasi che, per scriverle su un referto medico, ce vorrebbero i logaritmi;
Insomma, chi m’aveva già assotterrato co’ tutto lo scrittoio, chi aveva “sciolto le cane” (per la serie, “si so bone pel cignale…!”) e chi aveva più volte pensato alla lettera da scrive' a “Chi l’ha visto”, mai arrivata perché l’intestazione della missiva, alla voce: “destinatario”, pare riportasse: “Che l’hae veduto?”. Annullata la spedizione postale, nessuno, pare, sia stato in grado di rintracciarmi e chiudere il cerchio apertosi intorno alle nebulose vicende che mi avevano coinvolto.
Orbene, cari amici e tifosi a.ci.di, dopo questo lungo preambolo posso dire una cosa con certezza: di tutte le voci, dicerie, chiacchiere, maldicenze, indiscrezioni, storie e leggende sul mio conto, “nun ce n’è una bona manco pe’ fa la coppa”!
Allora che è successo veramente, vi chiederete. Bene. Successe che il vecchio cronista si innamorò perdutamente di una giovane ragazza, badante interna in casa del mio vecchio amico castellese, e che qui, per comodità, chiameremo Lolita come l’eroina del romanzo di Nabokov, e decise di vivere sino in fondo quest’ultima avventura erotica.
Alta, bionda, con le curve al posto giusto, na’ ventina de’ centimetri di più ed altrettanti anni in meno, che, detto tra noi, quando si ha a che fare con certe faccende, non guastano affatto: insomma, cari tifosi rossoblú, vi tradii, rinunciai al bacio setoso del baffo del Bello, per quella gentile parte dell’anatomia femminile che, a Napoli, dicesi pucchiacca! Volete mette!
Oltretutto, la Lolita in questione proveniva, udite, udite, da Begec, paese della Serbia, sconosciuto ai più, ma che diede i natali nientepopodimenoche all’illustrissimo Vujadin Boskov. Mi innamorai di lei perché sapeva tutto della Stella Rossa e praticamente parlava come l’indimenticabile allenatore della Sampdoria. Nel nostro primo incontro, quando passammo alle vie di fatto, ella, con quell’incantevole accento, mi chiese: “Hai messo barriera?”. Me partì ‘l capo come “cervo che esce da brughiera”, dicesse Boskov.
Trafficai parecchio, senza aver capito molto bene il senso della domanda, poi, con l’impeto del grande Cortellini, ultimo difensore delle domeniche al Tardiolo, le sussurrai: “Sì, l’ho messa sul primo palo”. Ma ella si inalberò e, convinta a seguire i dettami del suo manuale, mi gridò: “Barriera si mette su palo e basta.”
Quella sera, sconvolto dal dover rivedere tutte le poche certezze calcistiche che avevo appreso nelle mie cinquanta-e-‘n-po’ primavere, divorato da tutta ‘sta confusione calcistico-erotica, feci cilecca. Mi girai e rigirai nel letto, sognando i fasti del primo amore che non si scorda mai; era ‘l Bello che me sventolava ‘l manico della bandierina tra capo e collo. Preso da un sussulto, in dormiveglia, le gridai: “Farabutto! Lei è ‘n farabutto!”.   
Finì così. Il connubio calcio-eros durò quanto un fuoco di paglia. E non fu solo per colpa delle mie discutibili doti nell’ars amatoria.
In primis tutti quelli che mi conoscono, anche solo virtualmente, sanno bene che, oltre ad essere una gran forchetta, so’ anche de’ bocca bona. Orbene, giusto come infarinatura gastro-culinaria, sappiate che un pranzo tradizionale serbo si apre sempre e solo con la “Corba”; fu amaro lo stupore nello scoprire che con “Mangia Corba!” la bionda della Stella Rossa non intendeva il presente indicativo del verbo “Corbare”, vale a dire: “Magna e fatte ‘na pennichella” bensì: “Magnate sta minestrina”. E questo fu, su per giù, il menù settimanale al quale sottostai per quel periodo: lunedì: “corba al pommodoro”, martedì: “ribollita de’ Corba d’agnello”, mercoledì: “brodo de’ Corba de’ patate”, giovedì: “corba de’ spinace”, venerdì: “corba de’ funghi prataioli”; insomma, la mi pora nonna eva ragione, ogni bel canto viene a noia e, Corba-che-te-ri-Corba, Corba-te-che-Corbo-io, dopo poco mi sentii come la scena del film in cui Forrest Gump parla, per giorni e giorni, dei mille ed uno modi in cui rendere ricettabili i gamberetti.
Come avrete notato, tra l’altro, ho sorvolato sul pranzo domenicale perché quando, al  ritmo di “Tagliatelle Dreamin’”, parafrasando un celebre brano degli anni sessanta, mi furono servite le scodelle con la govedja čorba e la teleća čorba (rispettivamente a base di interiora di manzo e di vitello) l’amor profano, ebbe la meglio. Il primo amor profano, bene intesi. Ebbene, in quel giorno compresi che il pensiero dell’antipasto misto domenicale, co’ la mazzafegata e il capocollo de’ Ferretti, non mi avrebbe abbandonato fino al momento del trapasso.
Quelle domeniche trascorse a base di acque cotte sciacqua-budelle, tra un’elegante bionda dell’est dalle camicie ricamate e un semi-calvo alleronese dall’unghio incarnito, espatriato insieme alle sue inseparabili ciavatte de’ la sanitaria, abbinate ai calzettoni di spugna, quelle giornate bizzarre come il congiuntivo di Boskov, finirono così. Finì che appesi le scarpe al chiodo e ritornai fra le braccia grosse, per carità, ma confortanti della mi moje, suocera annessa, tra i baffi brizzolati del Bello e i valori normali della prostata.
Le lasciai un messaggio, scritto con una biro, dietro al ritaglio di giornale che celebrava lo scudetto di Vujadin, a Genova, nel 1991 che faceva così: “Partita dura novanta minuti e finisce quando arbitro fischia”. Ce vedemo più vecchie.
Il viaggio di ritorno fu, come spesso accade, pieno di ansie e di tormenti ma anche di curiosità su quello che mi ero perso. Ricordai in particolare, di un pomeriggio in cui, mentre facevo la posta alla bella slava, incrociai, tra i vicoli, l’aiuto cronista A.Ci.Do assai scoraggiato. Gli chiesi lumi sulla squadra, sui ragazzi, sul nuovo allenatore e il Nostro mi rispose, insaccando le spalle, alla Boskov: “pallone entra quando Dio vuole!”
Ragazzi, popolo rossoblù tutto, eccomi qua! Abbiamo da scrivere un’altra importante pagina di calcio e di vita insieme ed è proprio nei momenti più duri che, se guardiamo con gli occhi giusti, il bandolo della matassa appare più vicino e le imprese, da impossibili, appaiono già a portata di mano. Magari, basta scendere e portare la bicicletta sottobraccio. A quel punto, quella partita, “la possiamo vincere, perdere o pareggiare” ma per lo meno, abbiamo deciso di giocarla a modo nostro.
Sapete cosa gli risposi io a quel cronista? Da vero filosofo alleronese, gli dissi: “A te te sembra ‘na salita ma, se la guardi bene, penne come ’na scesa”. 
Tiberio, ne sono convinto, sarebbe fiero di me.