Tiberio Tiberi, noto ai
più come Brodo, era un uomo robusto, ben piantato, uno di quegli alleronesi
veraci a cui la “macchia”, intesa come “bosco”, inteneriva il volto, impreziosiva
anche i solchi delle mani. Me lo ricordo con quella camicia da battaglia e la
giubba di velluto appoggiata sulla spalla quando, a Mattio, col suo stile
indimenticabile, radunava i muli; in sella, pe’ la scesa, a quella già vecchia bicicletta
Bianchi e poi al ritorno, quando cominciava la salita, a piedi,
spingendola a mano. Seduto lì, ai piedi dell’Orologio, come chi aspetta di
respirare quell’aria bona che ti rianima, dopo una lunga giornata di lavoro, a
dilungarsi in chiacchiere e bloccare i passanti. Non gli sfuggiva niente e se
per un paio di giorni non ti aveva visto bazzicare da quelle parti, al terzo ti
punzicava: “Chi nun more s’arivede”, diceva
Brodo. E oggi, come allora, sarebbe toccato a me.
Ebbene, sì, cari tifosi
acidi, eccomi di nuovo su queste pagine a sventolare, dietro gli strepiti di
questa tramontana, così troppo tiepida da mandare a male tutte le salate, la
mai dimenticata bandiera rossoblú.
Ho saputo, dal mio Fido
&Co, che tra gli irti colli alleronesi, oltre alla nebbia e al ribbollir dei
tini, altre storie hanno tenuto banco in questa mia stagione di latitanza. Come
dire, l’hanno dette pe’ pelle de’ cane, raccontate de cotte e de crude. Eccovi
alcune tra le versioni più pregevoli:
a) “l’ha avuta”. E qui,
consentitemi, giù a ravanare i “poliminibus”, come avrebbe detto, pace
all’anima sua, la mia baffuta insegnante di latino;
b) “Ha chiuso baracca e
burattine”. Aminadab era il cavaliere mascherato che parlava per Mister Moureno
e che, dopo l’esonero, è emigrato verso altri lidi, limitandosi a scrivere sui
vari modi di soffriggere la trippa;
c) “la moje l’ha vergato”.
Il troppo tifo acido e la scarsa attenzione erotico-affettiva, rivolta alla
signora di cui sopra, l’hanno portato al patatrack;
d) “troppe bicchierette”.
Il buongustaio alleronese è finito all’ospedale perché c’ha ‘l fegato grosso
come ‘na vacca chianina e le transaminasi che, per scriverle su un referto
medico, ce vorrebbero i logaritmi;
Insomma, chi m’aveva già assotterrato
co’ tutto lo scrittoio, chi aveva
“sciolto le cane” (per la serie, “si so bone pel cignale…!”) e chi aveva più
volte pensato alla lettera da scrive' a “Chi l’ha visto”, mai arrivata perché
l’intestazione della missiva, alla voce: “destinatario”, pare riportasse: “Che
l’hae veduto?”. Annullata la spedizione postale, nessuno, pare, sia stato in
grado di rintracciarmi e chiudere il cerchio apertosi intorno alle nebulose
vicende che mi avevano coinvolto.
Orbene, cari amici e
tifosi a.ci.di, dopo questo lungo preambolo posso dire una cosa con certezza:
di tutte le voci, dicerie, chiacchiere, maldicenze, indiscrezioni, storie e
leggende sul mio conto, “nun ce n’è una bona manco pe’ fa la coppa”!
Allora che è successo
veramente, vi chiederete. Bene. Successe che il vecchio cronista si innamorò
perdutamente di una giovane ragazza, badante interna in casa del mio vecchio
amico castellese, e che qui, per comodità, chiameremo Lolita come l’eroina del
romanzo di Nabokov, e decise di vivere sino in fondo quest’ultima avventura
erotica.
Alta, bionda, con le
curve al posto giusto, na’ ventina de’ centimetri di più ed altrettanti anni in
meno, che, detto tra noi, quando si ha a che fare con certe faccende, non
guastano affatto: insomma, cari tifosi rossoblú, vi tradii, rinunciai al bacio
setoso del baffo del Bello, per quella gentile parte dell’anatomia femminile
che, a Napoli, dicesi pucchiacca! Volete mette!
Oltretutto, la Lolita in
questione proveniva, udite, udite, da Begec, paese della Serbia, sconosciuto ai
più, ma che diede i natali nientepopodimenoche all’illustrissimo Vujadin Boskov.
Mi innamorai di lei perché sapeva tutto della Stella Rossa e praticamente
parlava come l’indimenticabile allenatore della Sampdoria. Nel nostro primo
incontro, quando passammo alle vie di fatto, ella, con quell’incantevole
accento, mi chiese: “Hai messo barriera?”. Me partì ‘l capo come “cervo che
esce da brughiera”, dicesse Boskov.
Trafficai parecchio,
senza aver capito molto bene il senso della domanda, poi, con l’impeto del grande
Cortellini, ultimo difensore delle domeniche al Tardiolo, le sussurrai: “Sì, l’ho
messa sul primo palo”. Ma ella si inalberò e, convinta a seguire i dettami del
suo manuale, mi gridò: “Barriera si mette su palo e basta.”
Quella sera, sconvolto
dal dover rivedere tutte le poche certezze calcistiche che avevo appreso nelle
mie cinquanta-e-‘n-po’ primavere, divorato da tutta ‘sta confusione calcistico-erotica,
feci cilecca. Mi girai e rigirai nel letto, sognando i fasti del primo amore
che non si scorda mai; era ‘l Bello che me sventolava ‘l manico della bandierina
tra capo e collo. Preso da un sussulto, in dormiveglia, le gridai: “Farabutto!
Lei è ‘n farabutto!”.
Finì così. Il connubio
calcio-eros durò quanto un fuoco di paglia. E non fu solo per colpa delle mie discutibili
doti nell’ars amatoria.
In primis tutti quelli
che mi conoscono, anche solo virtualmente, sanno bene che, oltre ad essere una
gran forchetta, so’ anche de’ bocca bona. Orbene, giusto come infarinatura
gastro-culinaria, sappiate che un pranzo tradizionale serbo si apre sempre e
solo con la “Corba”; fu amaro lo stupore nello scoprire che con “Mangia Corba!”
la bionda della Stella Rossa non intendeva il presente indicativo del verbo “Corbare”,
vale a dire: “Magna e fatte ‘na pennichella” bensì: “Magnate sta minestrina”. E
questo fu, su per giù, il menù settimanale al quale sottostai per quel periodo:
lunedì: “corba al pommodoro”, martedì: “ribollita de’ Corba d’agnello”,
mercoledì: “brodo de’ Corba de’ patate”, giovedì: “corba de’ spinace”, venerdì:
“corba de’ funghi prataioli”; insomma, la mi pora nonna eva ragione, ogni bel canto
viene a noia e, Corba-che-te-ri-Corba, Corba-te-che-Corbo-io, dopo poco mi
sentii come la scena del film in cui Forrest Gump parla, per giorni e giorni,
dei mille ed uno modi in cui rendere ricettabili i gamberetti.
Come avrete notato, tra l’altro, ho
sorvolato sul pranzo domenicale perché quando, al ritmo di “Tagliatelle Dreamin’”, parafrasando un
celebre brano degli anni sessanta, mi furono servite le scodelle con la govedja
čorba e la teleća čorba (rispettivamente a
base di interiora di manzo e di vitello) l’amor profano, ebbe la meglio. Il
primo amor profano, bene intesi. Ebbene, in quel giorno compresi che il
pensiero dell’antipasto misto domenicale, co’ la mazzafegata e il capocollo de’
Ferretti, non mi avrebbe abbandonato fino al momento del trapasso.
Quelle domeniche trascorse a base di acque cotte
sciacqua-budelle, tra un’elegante bionda dell’est dalle camicie ricamate e un
semi-calvo alleronese dall’unghio incarnito, espatriato insieme alle sue
inseparabili ciavatte de’ la sanitaria, abbinate ai calzettoni di spugna, quelle
giornate bizzarre come il congiuntivo di Boskov, finirono così. Finì che appesi
le scarpe al chiodo e ritornai fra le braccia grosse, per carità, ma
confortanti della mi moje, suocera annessa, tra i baffi brizzolati del Bello e
i valori normali della prostata.
Le lasciai un messaggio,
scritto con una biro, dietro al ritaglio di giornale che celebrava lo scudetto
di Vujadin, a Genova, nel 1991 che faceva così: “Partita dura novanta minuti e
finisce quando arbitro fischia”. Ce vedemo più vecchie.
Il viaggio di ritorno fu,
come spesso accade, pieno di ansie e di tormenti ma anche di curiosità su
quello che mi ero perso. Ricordai in particolare, di un pomeriggio in cui, mentre
facevo la posta alla bella slava, incrociai, tra i vicoli, l’aiuto cronista A.Ci.Do
assai scoraggiato. Gli chiesi lumi sulla squadra, sui ragazzi, sul nuovo
allenatore e il Nostro mi rispose, insaccando le spalle, alla Boskov: “pallone
entra quando Dio vuole!”
Ragazzi, popolo rossoblù tutto, eccomi qua! Abbiamo da scrivere un’altra importante pagina di calcio e
di vita insieme ed è proprio nei momenti più duri che, se guardiamo con gli
occhi giusti, il bandolo della matassa appare più vicino e le imprese, da
impossibili, appaiono già a portata di mano. Magari, basta scendere e portare
la bicicletta sottobraccio. A quel punto, quella partita, “la possiamo vincere,
perdere o pareggiare” ma per lo meno, abbiamo deciso di giocarla a modo nostro.
Sapete cosa gli risposi
io a quel cronista? Da vero filosofo alleronese, gli dissi: “A te te sembra ‘na
salita ma, se la guardi bene, penne come ’na scesa”.
Tiberio, ne sono convinto,
sarebbe fiero di me.