lunedì 10 marzo 2014

Se vuoi vincere, devi saper perdere



Quando tanti, tanti (ma veramente tanti) anni fa iniziai il liceo ero un ragazzo alto poco più di un metro e sessantatrè, abbastanza goffo con i miei pantaloni corti sopra il ginocchio e i miei occhiali spessi come il fondo di una bottiglia. 
L’ aspetto bislacco comunque non mi ha mai impedito vivere con passione qualsiasi cosa facessi nella mia vita; come ogni ragazzo a prescindere dalla generazione,  la musica, i libri, il ballo, le feste (regà ve garantisco che allora, a differenza de adesso, sgarrà il coprifuoco delle 10 e mezza era 'n casino) e naturalmente le donne, erano le mie più grandi passioni(“'l bongiorno se vede dal mattino..”). 
Tuttavia il mio vero vizio è stato e sempre rimarrà (oltre al gentil sesso) il calcio: lo vivevo da idealista, con lealtà cavallesca, una ricetta che ora che so vecchio direi che faceva di me un buon compagno di gioco, uno di quelli “che la passa”.
Allora non avevamo la fortuna di avere un campo o una società pronta ad accoglierci come un qualsiasi bambino che oggi decide di avvicinarsi a questo sport: giocavamo per strada, meno che mai avevamo una porta (due sassi, due vasi di fiori, un sasso e un vaso, insomma quello che trovavamo senza troppe formalità), nessuno aveva mai indossato una “maglia”, anzi, se non stavamo attenti a non rovinare “li panni” che c’avevamo addosso ogni nuova toppa comparsa il giorno dopo avrebbe indicato a chiare lettere il numero di schiaffi presi la sera prima, una sorta di marchio del disonore insomma, che sarebbe ricaduto a suon de “ma te pare..?” sulle generazioni successive fino alla fine de secoli.
Nel gioco cercavo di compensare i miei limiti fisici come potevo, non riuscendo a vincere mai nei contrasti (forse me sarà venuto da lì il complesso di Napoleone?), cercavo di correre a più non posso, che Speedy Gonzales a confronto sembrava il regionale della tratta Orvieto-Siena; devo dire che nei momenti di difficoltà ricorrevo  spesso ad un aiutino esterno ( per chi già pensa male, “ma ch’ete capito? Mica ero n’drocato”!!): diciamo che ricorrevo ad uno stimolo di tipo iconografico, ovvero l’immagine della faccia che fece la mi mamma quando s’accorse che la damigianetta del vino rosso era stata misteriosamente dimezzata, mediante un sapiente buco fatto ad opera d’arte dal sottoscritto con la complicità del mi cugino più piccolo (in due avremo fatto si e no vent’anni), che ancora oggi regà, quanno ce ripenso me viene da corre! Non me la cavavo malissimo nemmeno con i piedi, certo non ero Maradona, ma ciò mi bastò a farmi guadagnare la stima e il rispetto dei miei amici, con cui trascorrevo quei pomeriggi così spensierati e che rimpiango ogni volta che sento la voce argentina della mi moje tuonare a mo’ di condanna a morte “do seeeee?”, inteso come seconda persona del verbo essere.
Ma le cose belle si sa, hanno sempre una fine più vicina di quanto vorremmo: un giorno di fine giugno arrivò ad Allerona un “forestiero”, nipote di certi parenti di Roma della nonna della fija della sorella del farmacista tanto per chiarezza, venuto a passare le vacanze nel paesello e “pe' respirà n’ po’ d’aria bona che la pe' quelle città 'l verde quanno lo vedono mae”?! Mah. 
Il ragazzo in questione 15 anni, ma già alto uno e ottantacinque  e con due spalle che lo rendevano più simile al minotauro che ad un individuo umano, chissà perché non mi prese in simpatia. 
Narcisisticamente mi sono sempre detto che forse era colpa proprio di quell’altezza spropositata in cui proprio non si ritrovava e che gli faceva quasi invidiare il mio piccolo mondo; più probabilmente era dovuta al fatto che il giovanotto in questione non spiccava in quanto a cultura e che la mi mamma aveva avuto la bella pensata di offrirmi come vittima sacrificale sull’altare delle ripetizioni al suddetto minotauro.
Orbene, il ragazzo in questione aveva però un solo ma indiscusso talento, era un portento del giuoco del calcio; ed il giorno che decise che sarebbe sceso in strada a giocare con noi e che io, 'l Maradona de noaltre, non avrei più toccato praticamente nemmeno mezzo pallone, divenne uno dei giorni più tristi della mia adolescenza. 
La botta fu talmente grossa che, ebbro d’orgoglio, decisi che non avrei mai più giocato in vita mia. Era o perlomeno sembrava la storia di Davide contro Golia, ma con un epilogo inverso.
A questo punto però vi chiederete il perché di tutto questo panegirico: non ho raccontato la mia storia per amor di vanagloria, ne del resto intendo incitare qualcuno a contattare la De Filippi per farmi incontrare il mio vecchio amico a “C’è posta per te”. 
Il senso di questa storia sta tutto nel suo finale; nella mia (pur breve) carriera calcistica la più grande sconfitta non è stata nel risultato scadente, ma nel perdere il senso per cui giocavo, perdere la passione, perdermi dentro una semplice delusione.
Cari  giocatori, carissimi tifosi, in questa semifinale abbiamo vissuto una storia per certi versi simile alla mia, anche noi ci siamo imbattuti in un forestiero più forte (che so gente “tanto, tanto vone” per carità, ma 'l fatto che Foligno è Lu centro de lu munno c’entrerà  pur qualcosa, no?!), nel nostro Golia personale, in una squadra che oltre ad aver fatto una splendida performance di gioco il cui merito va soprattutto ad alcuni elementi con cui si ha difficilmente possibilità di misurarsi in un girone di terza categoria, ci ha dato anche una grande lezione di  sportività e correttezza. 
Dal canto nostro abbiamo lottato con la dignità ed il cuore che ci contraddistingue, con tante assenze ed infortuni che purtroppo hanno fatto la differenza.  
Una delle regole più importanti, però, per imparare a vincere in questo sport è proprio riconoscere quando un avversario è superiore. 
Bisogna saper perdere” cantavano The Rokes con Dalla, anche se fa male, anche se sognavamo già il pullman, la coregorafia da serie C, la coppa, il Cholo che alza quelle col vino, anche se sognavamo solo di esserci ancora, almeno un’altra volta.
Io credo però (e i più superstiziosi si lancino nei rituali più vari) che ci saremo ancora su quel pullman un giorno, perché anche la nostra società ha una forza speciale, una marcia in più: la capacità di saper ricominciare nei momenti più bui, di vivere la parte autentica e vera dello sport al di là di tanta burocrazia, di saper festeggiare con l’avversario (a questo proposito ringrazio la capitana nonché presidentessa Vanessa che sul social network ce ne ha dato prova)…
A volte quando ci si sente smarriti durante un lungo cammino l’unica cosa da fare è fermarsi un attimo, guardarsi indietro e  ricominciare dal principio, dall’essenza delle cose: novanta minuti, un pallone, undici cuori che battono all’unisono e la nostra immancabile, celebrata, sudata ed amatissima greppa.